C’è qualcosa di affascinante nel modo in cui le regole cambiano senza fare troppo rumore. Quando si parla di pensioni, le trasformazioni non arrivano mai tutte insieme, ma si infilano tra le righe delle leggi di bilancio, tra un comma e un allegato. Proprio come sta accadendo adesso. Le discussioni si fanno sempre più accese nei corridoi della politica, mentre i lavoratori continuano a fare i conti con un presente fatto di contratti instabili, carriere spezzettate e prospettive incerte.
E intanto, all’orizzonte si affaccia una novità che può sembrare rassicurante: niente aumento dell’età pensionabile almeno fino al 2029. Nonostante i numeri dell’Istat dicano il contrario, l’esecutivo sta pensando di mettere tutto in pausa. Una scelta che tocca un nodo delicatissimo: l’equilibrio tra le generazioni. Dietro a ogni rinvio, c’è una domanda non detta: chi pagherà il conto domani? Intanto, la sensazione è quella di essere in un momento sospeso, dove il tempo sembra rallentare, ma le implicazioni corrono veloci. Ecco perché è importante fermarsi un attimo e capire cosa sta succedendo davvero.
L’idea di bloccare l’adeguamento automatico dell’età pensionabile nasce da un’esigenza concreta: fare i conti con un mercato del lavoro che non garantisce più certezze. Percorsi lavorativi irregolari, contribuzioni intermittenti, contratti a termine sempre più diffusi. In un contesto così fluido, mantenere una rigida connessione tra aspettativa di vita e requisiti pensionistici rischia di diventare un boomerang. Da qui la proposta di congelare l’aumento previsto per il biennio 2027-2028.
Il meccanismo automatico, introdotto per tenere sotto controllo la spesa pubblica, avrebbe comportato un innalzamento graduale: da 67 anni a 67 e 3 mesi per la pensione di vecchiaia e un analogo incremento per le pensioni anticipate. Ma ora tutto potrebbe essere sospeso. Il ministro Giorgetti e il sottosegretario Durigon hanno confermato l’intenzione di inserire questa misura nella prossima legge di bilancio. L’obiettivo è chiaro: evitare di appesantire ulteriormente un sistema già sotto pressione.
Tuttavia, non è ancora certo se il blocco riguarderà solo l’età anagrafica o anche i contributi richiesti per la pensione anticipata. Per ora, l’unica cosa certa è che l’età minima non dovrebbe superare i 67 anni almeno fino al 2029. Una scelta che può sembrare vantaggiosa, ma che apre interrogativi profondi su cosa accadrà dopo questa finestra temporale.
Non tutti però vedono con favore questo intervento. L’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) ha sollevato dubbi significativi, mettendo in evidenza il rischio che una scelta del genere possa compromettere l’equità tra generazioni. L’automatismo basato sull’aspettativa di vita, infatti, non è solo un calcolo tecnico: serve a distribuire il peso della longevità in modo equilibrato. Se si vive di più, è logico che anche il periodo lavorativo si allunghi. Interrompere questo meccanismo può sembrare una vittoria nel presente, ma diventa un debito lasciato alle generazioni future.
L’esempio del 2019 è ancora fresco. In quell’occasione si bloccò l’aumento dell’età pensionabile solo per chi svolgeva lavori gravosi. Una misura selettiva, ancora oggi attiva. Ma allargare questo principio a tutti rischia di aumentare la spesa pensionistica in modo non sostenibile. E se i conti non tornano, le pensioni rischiano di essere sempre più basse, soprattutto per i giovani e per chi ha avuto carriere discontinue.
Secondo la presidente dell’Upb, Lilia Cavallari, mantenere un legame diretto tra speranza di vita e requisiti pensionistici è fondamentale per garantire stabilità. E se questa connessione viene meno, bisogna almeno pensare a strumenti alternativi, come le finestre mobili o correttivi mirati. Altrimenti, si rischia di creare un sistema dove le pensioni diventano un privilegio per pochi, mentre per molti si apre un futuro fatto solo di incertezza.
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