Una generazione fa si smetteva di lavorare prima dei 60 anni. Oggi si superano i 64 e il traguardo continua ad allontanarsi. Ma cosa ha portato a questo cambiamento? E perché le donne finiscono per restare più a lungo al lavoro? Dietro i numeri si nasconde una trasformazione profonda, fatta di riforme, diseguaglianze e nuove incertezze. Il tempo della pensione non è più lo stesso. E il futuro appare sempre più incerto per chi non ha avuto una carriera stabile e continua.
C’era un tempo in cui si parlava di pensione con leggerezza. Bastava lavorare un certo numero di anni, e poi si lasciava il posto a qualcun altro, senza troppi calcoli. Oggi, invece, ci si ritrova a fare i conti con regole sempre più rigide, sistemi di calcolo complicati e aspettative che cambiano di anno in anno. Per molti, la pensione è diventata un puzzle da decifrare.
E poi ci sono differenze che passano sotto silenzio, ma che pesano come macigni: chi ha avuto una carriera discontinua, chi ha guadagnato poco, chi ha fatto pause obbligate. In particolare, le donne si ritrovano a pagare il prezzo più alto. Non solo escono più tardi dal mondo del lavoro, ma ricevono anche assegni più bassi. Un doppio svantaggio che spesso resta invisibile, ma che incide profondamente sulla qualità della vita dopo il lavoro.
Nel 1995, l’età media per smettere di lavorare in Italia era attorno ai 57 anni. Oggi, supera i 64 e punta sempre più verso i 65. L’aumento non è solo apparente: tra il 2023 e il 2024 l’età media è passata da 64,2 a 64,8 anni. Dietro questa crescita ci sono riforme previdenziali che hanno cambiato profondamente le regole del gioco, allungando i tempi e rendendo più difficile l’accesso al pensionamento anticipato.
La cosiddetta Quota 103 è uno degli strumenti ancora disponibili per anticipare l’uscita dal lavoro, ma impone requisiti rigidi: 62 anni di età e almeno 41 anni di contributi. Non tutti riescono a raggiungere questi numeri, specialmente chi ha avuto carriere meno lineari. Così, molti sono costretti ad attendere l’età di vecchiaia, oggi fissata a 67,2 anni.
A complicare ulteriormente le cose c’è il metodo di calcolo contributivo, che ha sostituito quello retributivo. Significa che l’assegno pensionistico dipende strettamente dai contributi versati e non dallo stipendio finale. Una modifica che penalizza chi ha avuto stipendi bassi, contratti saltuari o pause prolungate. Il risultato? Pensioni più basse e meno certezze.
Un dato sorprende più di tutti: oggi, in media, le donne escono dal mondo del lavoro un anno e cinque mesi dopo gli uomini. L’età media per loro è di quasi 65 anni e mezzo. Non è una scelta volontaria, ma una conseguenza di carriere più frammentate, maternità, lavori part-time e periodi di disoccupazione. Tutti fattori che rendono quasi impossibile accumulare i contributi necessari per la pensione anticipata.
E non è finita qui. Oltre a uscire più tardi, le donne ricevono pensioni molto più basse. In media, l’assegno mensile femminile si ferma a 1.595 euro contro i 2.143 euro degli uomini. Una differenza del 34% che fotografa una disuguaglianza strutturale. Si lavora di più, si guadagna meno, e alla fine si ottiene anche una pensione più leggera.
Nel Rapporto annuale INPS 2025, queste disparità vengono messe nero su bianco. Il sistema è definito “solido”, ma si riconosce la necessità di nuove misure di flessibilità in uscita, soprattutto per chi ha avuto percorsi irregolari. Intanto, strumenti digitali come “La mia pensione futura” e “Pensami” offrono una bussola utile per orientarsi, ma la realtà resta complessa.
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