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La Cina si ricorda di essere comunista e il lusso europeo trema

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Salvatore Dimaggio

La crisi cinese partita dallo scandalo Evergrande e poi rinforzata si col problema del Energy Crunch ha messo in luce tutte le fragilità dell’economia cinese.

Un economia molto dinamica ma anche carica di contraddizioni. Il governo ha cominciato a mostrare il suo lato più diffidente e paranoico cercando in ogni modo di controllare media e social network talmente tanto da costringere LinkedIn alla fuga. Ma non basta la scure del governo di Pechino ha cominciato ad abbattersi sul settore del lusso.

Il lusso nel mirino

Beninformati dicono che nel Partito Comunista cinese non si vuole più seguire la linea dello scimmiottare in tutto e per tutto l’occidente per cercare di cavalcare la crescita ad ogni costo e che questa filosofia abbia creato troppi eccessi e troppe distorsioni del mercato. C’è bisogno di rimettere mano alle priorità dello stato e del governo e uno dei migliori modi per farlo è colpire il lusso. Ma il lusso in Cina non è nel mirino soltanto del governo. La crisi del credito ha fatto emergere numerose aziende indebitate anche nel settore del lusso. Ma non basta: vi è anche il terzo elemento di un popolo spaventato dalla crisi e che è meno disposto ad acquistare beni costosi e non necessari.

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Dunque il governo lo vuole punire, le aziende sono indebitate, la gente ha altre priorità e così il lusso cinese comincia a vacillare. Il problema è che vacilla anche il lusso europeo.

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Ce ne stiamo accorgendo sui listini del vecchio continente, dove il comparto appare sottotono e se ne accorgono gli analisti che cominciano a vedere il comparto del lusso come più fragile e più esposto alle tempeste.

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