Come cambia la vita di chi lavora quando una decisione riscrive le regole? A volte, ciò che sembrava un confine invalicabile si trasforma in una porta aperta. E non è solo questione di diritto, ma di giustizia che incontra le persone, le famiglie, le loro storie. Questa vicenda parla di affetti, di lavoro e di sostegno economico, ma soprattutto di come le istituzioni possano dare voce a chi rischiava di restare escluso.
È in momenti come questo che il passato e il presente si incontrano: una norma nata quasi settant’anni fa viene rimessa in discussione per dare spazio a una realtà che oggi non si può più ignorare. Una scelta che non resta chiusa nelle aule di un tribunale, ma entra nelle case, nelle relazioni, nei bilanci familiari. Perché il diritto, quando tocca la vita di ogni giorno, diventa qualcosa di vivo, concreto, persino emozionante. E quello che sembrava un dettaglio burocratico si trasforma in un riconoscimento, in un “sì” che cambia prospettiva.

Ogni grande cambiamento nasce da un dubbio. Qui, il dubbio è stato: fino a che punto un legame affettivo può influire su un diritto economico? Le norme scritte nel secolo scorso non avevano previsto le nuove forme di famiglia che oggi fanno parte della quotidianità. E così un semplice ricorso ha acceso i riflettori su un problema che tocca più persone di quanto si pensi. In ballo non c’è solo un assegno, ma il valore che viene riconosciuto alle relazioni, anche quando non hanno un “bollino ufficiale”. È la storia di chi ha chiesto solo ciò che riteneva giusto, e si è trovato davanti a un muro di regole da interpretare. Ma è anche il racconto di come la giustizia, quando vuole, sa essere uno strumento di cambiamento reale.
Una sentenza che cambia tutto: cosa ha deciso la Corte Costituzionale sull’Assegno per il Nucleo Familiare e i conviventi di fatto
La sentenza n. 120 del 22 luglio 2025 della Corte Costituzionale ha scosso le fondamenta di una regola rimasta immutata per decenni. Il nodo era l’articolo 2 del DPR 797/1955, che esclude il coniuge e i parenti entro il terzo grado conviventi con il datore dal diritto all’Assegno per il Nucleo Familiare (ANF). L’INPS sosteneva che questa esclusione dovesse estendersi anche al convivente di fatto, interpretandolo come una sorta di “equivalente” del matrimonio. Il caso, nato davanti alla Corte d’Appello di Venezia, ha sollevato dubbi enormi: davvero le convivenze devono essere trattate come i matrimoni in queste esclusioni?

La Consulta ha scelto di rispondere con chiarezza: no. Le esclusioni sono tassative e non si possono ampliare per analogia. La legge del ’55 non menziona i conviventi, e la loro situazione non è automaticamente paragonabile a quella di un coniuge o di un parente stretto. Inoltre, la Corte ha spiegato che il senso originario della norma era evitare che l’assegno finisse “nella stessa cassa” del datore di lavoro, cosa che non si può dare per scontata in una convivenza. In più, la legge n. 76/2016 ha sì riconosciuto le unioni civili e le convivenze, ma non le ha rese identiche al matrimonio sul piano previdenziale.
Un passo decisivo per i lavoratori e le nuove forme di famiglia: cosa significa davvero questa decisione
Questo chiarimento è molto più di un tecnicismo: è un cambio di prospettiva. D’ora in avanti, chi convive con il proprio datore potrà chiedere l’ANF senza temere di vederselo negare solo per il tipo di rapporto che ha. Si tratta di una conquista importante per tanti lavoratori che, altrimenti, avrebbero visto ridursi le possibilità di sostenere i propri figli. Ma è anche un segnale forte: il diritto deve tenere conto della realtà, non restare fermo a schemi di un’altra epoca.