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Paradosso acciaio: grande richiesta, ma 60mila potrebbero essere licenziati

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Salvatore Dimaggio

I sindacati lanciano l’allarme occupazionale.

Una situazione paradossale ed incomprensibile quella denunciata dalla varie sigle sindacali italiane. Con la crisi delle materie prime c’è una forte domanda di tante di esse e l’acciaio e proprio una di quelle di cui c’è maggior bisogno. Eppure le acciaierie italiane stanno mettendo a rischio ben 60.000 posti di lavoro. Lo hanno detto chiaro e forte l’8 novembre Fim Cisl, Fiom Cgil e Uilm, proclamando 8 ore di sciopero per il 10 novembre in tutte le acciaierie con una protesta a Roma. Ciò che i sindacati lamentano sono i tagli continui ed ingiustificati alla forza lavoro. Se prima si licenziava per la crisi del mercato, poi il pretesto è diventato il covid ed ora che invece c’è la ripresa e si potrebbe assumere per riuscire a star dietro alla domanda forte… si licenzia ancora.

Tagli anche con la ripresa

La situazione peggiore è quella di Taranto. I sindacati la definiscono drammatica e non capiscono come si possa mandare in cassa integrazione anche in un momento di ripresa. Un momento contraddistinto da ordinativi in forte aumento, ai quali gli impianti non riescono neppure a stare dietro. I sindacati spiegano come le politiche di questi gruppi dell’acciaio siano a senso unico: sempre verso i licenziamenti. Anche se se cambiano e condizioni di mercato e diventano favorevoli, lo scopo rimane sempre tagliare la forza lavoro. Con lo sciopero e le proteste a Roma i sindacati vogliono attirare l’attenzione in particolare sul caso di Taranto, il più grave, ma in generale sottolineare come i lavoratori raramente beneficino della tanto decantata ripresa. Sicuramente non nel settore dell’acciaio.

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Salutano positivamente l’ingresso dello Stato nell’impianto di Taranto ma denunciano di non essere stati ancora in grado di incontrare i vertici.

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Insomma una situazione tesa e poco comprensibile.

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