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Amano Bitcoin e NFT più del proprio paese e così lasciano la Cina

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Salvatore Dimaggio

Il ban sulle criptovalute voluto da Pechino all’inizio di quest’anno ed intensificatosi qualche mese fa ha cambiato qualcosa nel modo in cui la Cina viene percepita.

La Cina oggi non è più quel dragone rampante e tecnologico che era fino a un po’ di tempo fa. Ma vediamo di capire meglio cosa sta succedendo. Con il ban sulle criptovalute la Cina che era piena di miners li ha fatti fuggire tutti. I minatori sono coloro i quali estraggono i nuovi Bitcoin. Un’attività complicata ma anche redditizia. La Cina era piena di minatori ma con la stretta voluta da Pechino, i minatori se la sono data a gambe. In parte sono andati negli Stati Uniti ed in Canada, in parte nei paesi vicini con costi energetici più bassi. Di conseguenza chi si stava arricchendo con il mining di Bitcoin ha preferito darsela a gambe che sottostare al divieto.

Il dragone non sembra più amico di chi innova

Ma in realtà oggi emerge come il fenomeno sia molto più ampio. La caccia data dal governo alle criptovalute e adesso anche ai non fungible token e l’ostilità ostentata nei confronti della blockchain stanno spingendo tanti trader e uomini d’affari a lasciare la Cina. Con queste mosse il paese del dragone si è giocato la simpatia e soprattutto la fiducia di tanti che lo vedevano come una terra di opportunità per la tecnologia e per la blockchain. È stata una mossa che probabilmente ha impedito la fuga di capitali all’estero (che con le criptovalute in effetti è facilissima) ma ha fatto perdere tanto in termini di simpatia e di fiducia e non sappiamo se a Pechino in effetti sia alla fin fine convenuto.

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Un paese che vuole soffiare agli USA lo scettro di paradiso dell’innovazione non può solo reprimere e vietare. Ricordiamo che con queste pratiche ha costretto Linked-In a fuggire.

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Davvero il dragone ha bisogno di capire meglio in che direzione vuole andare.

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